Lo scudo deflettore dell’astronave Enterprise sarà presto realtà!
Ogni astronave che si rispetti, che sia sviluppata nell’universo di Star Trek o di Star Wars, deve essere equipaggiata con un sistema di scudi deflettori in grado di proteggere la nave dai raggi laser dei nemici e dai mini corpi celesti che potrebbero colpire l’astronave durante la navigazione.
Fantascienza? In realtà, uno studio teorico prodotto da un gruppo di studenti di fisica dell’Università di Leicester afferma esattamente il contrario: gli scudi deflettori sono scientificamente possibili.
La ricerca, infatti, sostiene che le materie prime e la tecnologia esistenti sarebbero sufficienti a creare lo scudo già oggi. Tuttavia, come ammettono gli stessi studenti, i risultati non sarebbero esattamente come quelli visti nei film di Star Trek e Star Wars: lo scudo renderebbe impossibile vedere cosa succede al di fuori dell’astronave.
Delusi? In realtà, no! Soprattutto perché si tratta di uno dei primi passi compiuti in questa direzione e che potrebbe aprire la strada allo sviluppo di una tecnologia in grado di rendere più sicura l’esplorazione spaziale, proteggendo le astronavi da possibili collisioni con corpuscoli vaganti nello spazio.
Nell’articolo pubblicato dai tre studenti di fisica (Alexander Toohie, Joseph Macguire e Alexandra Pohl), viene proposto l’utilizzo di un potente magnete dal calibro di quelli già usati nella tecnologia medica per bloccare il raggio di un laser.
L’idea è quella di creare un guscio di plasma super-caldo caricato elettricamente e orientato attorno all’astronave grazie ad un campo magnetico. I calcoli mostrano che uno scudo sufficientemente denso potrebbe essere prodotto con un campo magnetico di 5 Tesla.
La fonte di energia proposta nello studio sarebbe in grado di alimentare lo scudo deflettore di una piccola astronave. Gli scienziati in erba hanno proposto anche una soluzione al problema della visibilità grazie ad una fotocamera a ultravioletti che consenta ai piloti di vedere il mondo esterno utilizzando frequenze al di fuori della gamma dello scudo.
I giovani ricercatori sarebbe qualcosa di simile allo strato di plasma che circonda il pianeta Terra, proteggendolo dai detriti e dalle radiazioni provenienti dallo spazio.
Gli operatori radio a lunga distanza utilizzano il fenomeno per far “rimbalzare” i segnali radio sulla parte interno dello scudo terrestre (ionosfera), in modo da comunicare con i dispositivi ben al di là dell’orizzonte visibile.
“L’atmosfera terrestre è composta da diversi strati distinti, uno dei quali è la ionosfera”, spiega al sito phys.org Alexander Toohie, uno degli autori dello studio. “La ionosfera è un plasma e si estende a circa 50 km sopra la superficie della Terra. Proprio come il plasma descritto nel nostro documento, esso riflette alcune frequenze di radiazione elettromagnetica, in questo caso radiofrequenze”
“Un’altra possibile applicazione di questo principio potrebbe essere quello di intrappolare le radiazioni all’interno di un guscio di plasma. Sarebbe utile per applicazioni che richiedono ambienti che lavorano a temperature incredibili, come reattori a fusione sperimentali”, dice ancora il giovane ricercatore, e forse utilizzabile per arginare il diffondersi delle radiazioni in caso di incidenti nucleari.
Sulla stessa tematica….E in atto lo studio del motore a curvatura….
Si chiama Harold White, fisico e specialista di sistemi di propulsione spaziale futuri che ancora soltanto lui immagina e che parla con la timidezza pensosa dello scienziato vero, davanti alla sua astronave “Enterprise” che somiglia a una ruotina per supercriceti lanciati oltre la velocità della luce.
“E’ possibile”, dice, “è perfettamente possibile violare il limite di velocita dell’Universo”. Ma quando? “Fra quanche centinaio di anni”.
Eppure è proprio nel suo laboratorio, modesto, spoglio e piccolo come un’aula d’asilo, lavorando con gli spiccioli che scivolano dalle tasche del bilancio Nasa come monetine tra i cuscini dei divani, che l’intuizione romanzesca del creatore di Star Trek, Gene Roddenberry, il superamento della velocità della luce, è lavoro quotidiano.
L’idea centrale, non nuova ma finora sempre teorica, è proprio quella che i milioni di fedeli delle serie e dei filmStar Trek conoscono da quando il primo episodio andò in onda nel settembre del 1966: la “warp speed”, la traiettoria che viaggia sui “warp”, le curve e le pieghe dello spazio per tagliare le distanza e renderle più a misura di una vita umana che non può essere contata in anni luce.
Il lavoro del dottor White, che la Nasa ha finalmente riconosciuto e finanziato con quella miseria di 50 mila dollari, muove dal “Vettore di Alcubierre” l’idea di un fisico teorico messicano, Miguel Alcubierre, elaborata nel 1994. Visto che il limite di velocità dei fotoni, cioè della luce, postulato dalla relatività speciale di Einstein non è oltrepassabile, Alcubierre ipotizzò che il solo modo per superarlo fosse non di accelerare il moto, ma di ridurre lo spazio.
Se il suo “motore” potesse essere costruito, lo spaziotempo davanti all’astronave si restringerebbe, espandendosi nella sua scia. Dunque la “Enterprise” dei futuro Captain Kirk o Picard non andrebbe più veloce, rispettando il limite di velocità imposto dal codice Einstein, ma percorrerebbe più distanza.
Ma nessuno sa come costruire un veicolo capace di comprimere lo spazio, ridurre il tempo e navigare tra le rughe dell’Universo come l’ago di una sarta fra le pieghe di un tessuto.
Problemi incomprensibili a noi umani, come “energia a densità negativa” generata da materia esotica quali le “particelle con massa negativa”, o i “barioni”, o il “plasma quarkgluon “, magari prodotti dalla “femtotechonologia” che addirittura violerebbero le leggi della fisica conosciute avevano sempre confinato i tentativi di applicazione pratica del “Moto di Alcubierre ” sulle lavagne delle aule universitarie. Entra in scena Harlod White.
Armato di un interferometro, un’apparecchiatura circolare che serve a misurare le deviazioni nel percorso dei fotoni, dunque della luce [il principio cruciale per il viaggio a velocità “warp”] White cerca di riprodurre l’evento che segnò la nascita dell’Universo.
“Sappiamo che dopo il Big Bang, particelle furono allontanate l’una dall’altra a velocità immense. Se la natura potè farlo, perché noi non potremmo riprodurre il fenomeno?” spiega a un intervistatore del New York Times.